Elena Pontiggia, 2017 - Archivio Pierantonio Verga

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Le case degli angeli

Nel 2010, cinque anni prima che la morte lo raggiungesse prematuramente, Pierantonio Verga dà inizio al suo ciclo di opere più intenso e significativo. Sono immagini di case, piccoli paesaggi lirici a cui dà nomi diversi: La casa del ricordo, La casa del poeta, La casa fra le ali, La casa povera, La casa dell’angelo. In ultimo, quando ormai la malattia con cui aveva lottato a lungo stava per prevalere, è proprio l’ultimo il titolo più frequente.
Il tema della casa o, per meglio dire, la sua evocazione aleggiava da tempo nella pittura dell’artista, ben prima di quel 2010. Si può dire anzi che tutta la ricerca di Verga sia animata da un tentativo di costruzione, che sfociava però in una cronaca di lacerazioni, di sentieri interrotti, di impossibilità. Invece nei suoi esiti estremi, quando ci si aspetterebbe più che mai di trovare nella composizione un diario di frammenti, di quelle disjecta membra di cui parlava Orazio, Verga giunge a un disegno più compiuto, più preciso. Come se quella casa a lungo cercata l’avesse, alla fine, trovata.
Pierantonio Verga (Milano 1947 - Vimercate 2015) si era affacciato sulla scena artistica giovanissimo, alla metà degli anni sessanta, e già nel 1966 aveva tenuto la prima personale. Aveva fatto in tempo a frequentare lo studio di Lucio Fontana, dal quale aveva ricevuto i primi incoraggiamenti. Era anche diventato amico di Roberto Crippa: un sodalizio durato purtroppo pochi anni, perché l’artista monzese scompare in un incidente di volo nel 1972.
Verga era poi entrato in contatto (ma in modo laterale, e non tanto perché viveva a Desio, quanto - si direbbe - per una sua innata vocazione allo stare appartato) con l’astrazione milanese degli anni settanta e con la pittura analitica, pur senza rientrare né nella prima né nella seconda. Dopo aver dialogato episodicamente col concettualismo segnico (Scrittura, 1990), la sua pittura si era riallacciata alla lezione dell’informale, mescolandola con certi esiti dell’espressionismo americano degli anni ottanta, a cominciare da James Brown. Aveva dipinto, così, un mondo disordinato, in subbuglio, composto di linee approssimative e vaghe sagome geometriche, sparse sulla tela come una manciata di coriandoli.
Negli ultimi anni invece, a partire pressappoco dal 2010, approda a una ricomposizione della forma che ha il suo vertice nel ciclo di opere qui esposte. Sono sempre architetture lievi e volatili quelle di Verga: forme bidimensionali, come ritagliate nella carta, che danno l’idea non solo di una costruzione, ma anche di un’apparizione. Accanto alle case, in quei suoi paesaggi simili a presepi, un po’ teneri e un po’ malinconici, si vedono di solito la sagoma ellittica di un cipresso e quella ricurva di uno spicchio di luna. Ed è proprio la leggerezza di quelle forme a suggerire un’idea di spiritualità, a dare il senso di uno spazio metafisico, di un altrove.
Quali possono essere i modelli a cui ha guardato Verga? A prima vista l’artista sembra riallacciarsi a un grande petit-maître lombardo come Tino Stefanoni, in particolare ai suoi paesaggi rarefatti degli anni ottanta. Ma forse Verga ha soprattutto condiviso con lui alcuni amori intellettuali: la metafisica di de Chirico, il realismo magico di Carrà e di Donghi. Tuttavia nella sua pittura c’è qualcosa di diverso. Ai maestri della costruzione della prima metà del Novecento affianca un richiamo a Licini, ma soprattutto si avverte nei suoi quadri un senso di fragilità. Non è un caso che le sue forme non abbiano ombre e chiaroscuri, ma siano ricavate direttamente dal colore. Quell’assenza di spessore, che le rende simili a un collage; quel colore magro, acquoso e diluito, che indugia sul pedale basso dei rosa, sull’asprezza dei gialli verdeggianti, sui neri profondi; quelle linee mai dritte, dai profili irregolari come se fossero strappate, ci dicono che qui la materia, con tutto il suo peso, è stata superata e che ci troviamo in un territorio più libero, più etereo.
Si possono commettere due errori osservando queste opere ultime di Verga. Il primo è lasciarsi affascinare troppo dalla magia dei titoli, fermarsi (con una riflessione solo letteraria) alla suggestione di quelle sue didascalie che sembrano versi: Quasi l’alba; La notte silente; Può darsi ripassi un angelo; Come un’alba, come un tramonto.
Il secondo errore, però, è non lasciarsene affascinare e fermarsi a una indagine puramente formale della sua pittura, dimenticando che in queste opere siamo di fronte a una sorta di testamento spirituale. Quelle case che sono case dell’anima; quei cipressi, simboli millenari dell’eternità; quelle lune un po’ infantili e un po’ cosmiche; quel continuo accennare alla presenza degli angeli parlano di una meta finalmente raggiunta. E’ come se Verga ricordasse (ma in realtà non l’aveva mai scordato) quello che gli aveva detto Fontana: “Quando si fa un quadro l’ultimo pensiero deve essere il quadro, il primo deve essere il mondo”. Ed è come se il mondo, appunto, gli fosse apparso finalmente sotto l’aspetto non di un mucchio di frammenti, ma di un disegno compiuto, ordinato, accorato eppure felice. Quel mondo a cui tutti aspiriamo e che nei suoi quadri ci sembra, per un attimo, di vedere.
 
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