Luca Pietro Nicoletti, 2019 - Archivio Pierantonio Verga

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Sala Lucio Fontana
Promemoria su Pierantonio Verga

Pierantonio Verga nasce a Milano nel 1947, e in area lombarda opera per tutta la vita, anche quando deciderà di trasferire la propria dimora in Brianza, a Desio: da un punto di osservazione decentrato, Milano resta il polo di attrazione a cui rivolgersi e da cui avere un aggiornamento su quanto stava accadendo. Quella che a prima vista può sembrare dunque una banale informazione biografica, dunque, costituisce invece un indizio importante per una più precisa collocazione del suo lavoro entro un contesto più ampio. Non è un fatto da trascurare, soprattutto in relazione alla cronologia dei fatti della cultura artistica e della storia novecentesca, da mettere sempre in relazione agli esiti della ricerca artistica, anche quando la storia non vi è direttamente chiamata in causa. Il suo, infatti, è un universo lirico lontano dalla contestazione in anni in cui molti suoi coetanei avrebbero aderito senza indugio alla temperie del momento, optando lui per un eremitaggio meditativo che si preparava a entrare in sintonia con certi “ritorni” nelle arti visive che contrassegnano la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta.
Bisogna quindi partire da questo assunto per capire il senso dell’opzione Informale con cui Verga ha fatto i conti e di come ha poi interiorizzato gli strumenti di quel linguaggio secondo una propria declinazione inizialmente narrativa, ma poi nel tempo sempre più simbolica, evocativa e in ultimo persino rituale. Per generazione e per spirito, infatti, la sua ricerca va inserita nel novero di quelle indagini che hanno recuperato gli strumenti linguistici della pittura di gesto, che hanno inciso l’impasto di materia denso e a volte sabbioso steso sul supporto, ma che lo hanno fatto servendosene come strumenti, come indicazioni di possibili procedimenti utili all’elaborazione di una determinata immagine, senza che il segno, il graffio, o la traccia immediata fossero il soggetto primo ed esclusivo della pittura stessa. Questo voleva dire trovare un nuovo significato: servirsi dell’Informale, dunque, ma senza i contenuti per cui questo era nato, dal momento che il dramma esistenziale dell’uomo uscito dalla guerra, carico di un impulso da riversare violentemente sulla superficie della tela non poteva appartenergli. Piuttosto, Verga coglieva quella congiuntura di ritorno alla pittura e di riscoperta di radici arcaiche e remote, irrazionali ma lontane nel tempo, laicamente rivolte a una nuova e indistinta spiritualità espressa per via di simboli fluttuanti nel campo pittorico. Non è un caso, infatti, che Stefano Crespi aprisse il suo testo per la mostra di Verga a Villa Tittoni Traversi di Desio, nel 2006, citando un passo da L’arte dell’uomo primordiale, un breve testo con cui Emilio Villa stabiliva, negli anni Cinquanta, una relazione diretta fra le nuove esperienze di segno (pensando in particolare a Giuseppe Capogrossi) e l’arte rupestre: l’uomo moderno era improvvisamente vicino all’uomo primitivo, condividendone i timori, segnando sulla tela delle immagini elementari quanto lo erano quelle sulle pareti delle caverne, e come quelle cariche di un significato allusivo e benefico se non addirittura apotropaico. Il graffito, dunque, indicava in forma paratattica un racconto, esibendone i protagonisti e cogliendoli in un momento significativo dell’intreccio, stabilendo quindi un rapporto con l’oralità e la pratica di raccontare attraverso le immagini e usando queste come supporto al discorso verbale. Nel 1996, infatti, Elisabetta Longari aveva titolato un paragrafo del suo testo su Verga - in cui dichiara di aver voluto “auscultare” la sua opera con l’intento di «praticare il giuoco dei paralleli testuali» - Appunti per un glossario dei titoli, identificando delle famiglie tematiche archetipiche: il cielo, la terra, il sacro (da non intendersi in accezione confessionale) che si declinano nelle figure dell’angelo e del nido. Ecco dunque che nel tempo Verga era arrivato ad assemblare un proprio dizionario di immagini-simbolo attorno alle quali incardinare il proprio discorso sulle immagini.
Andando a monte, però, scegliere questa via della pittura Informale significava girare le spalle al grande filone portante di quella temperie in ambito lombardo scegliendo di non diventare né un “astratto-concreto” in ritardo né, soprattutto, un “ultimo naturalista”: Verga fa i conti col mondo esterno e con gli elementi naturali, ma li stilizza con un disegno essenziale, consapevolmente elementare per condensarvi un concetto visivo più che una rappresentazione di umori e atmosfere formali. Lo aveva intuito Roberto Sanesi, introducendo una delle prime importanti pubblicazioni sul suo lavoro, nella quale annotava che il lavoro di Pierantonio Verga faceva sì i conti col naturale, ma per fare questo la ricerca «si fonda sugli aspetti epifanici, o frammentari, di una natura già tradotta in mito». Senza perdere un sentimento di stupore di fronte agli oggetti, insomma, egli procedeva verso «il fondamento magico, e infine la riduzione a segnale emblematico, con tutte le sue proiezioni verso l’originario, il primitivo».
Sanesi, quando scriveva queste righe, aveva pubblicato da poco un importante saggio su Emilio Scanavino, artista esplicitamente citato nel testo, e pensava proprio a quel modello nel momento in cui si riferisce a una pittura emblematica, che ha saputo fare del segno lo strumento per una immagine capace di veicolare contenuti simbolici. L’arcaismo, invece, era dato soprattutto dall’incisione su superficie sabbiose, sulla quale Verga aveva tracciato il contorno di immagini semplici che potevano far pensare a tavolette di argilla con caratteri cuneiformi, o comunque riempite di una scrittura ormai indecifrabile e per questo ulteriormente carica di mistero. Non era distante il famoso saggio con cui nel 1979 Achille Bonito Oliva avrebbe lanciato dalle pagine di “Flash Art” l’idea di Transavanguardia, sancendo un ritorno alla pittura e alla figurazione in cui la parola d’ordine era un ritorno agli archetipi primordiali. Nel fare la sua operazione speculativa, però, il critico romano era ricorso ad artisti che, prima della sua apparizione in scena, avevano praticato altri generi di espressione artistica, non privi di implicazioni concettuali. Aveva così tagliato fuori una larghissima schiera di pittori che invece non avevano mai tradito quel medium e che avevano autonomamente sentito una spinta verso quella temperie culturale, ma difendendo al contempo una qualità nella conduzione e tenuta pittorica del quadro che non poteva conciliarsi con la iattanza volutamente superficiale dei transavaguardisti.
Non a caso, nel giro di poco tempo sarebbero comparsi nella produzione di Verga dipinti su supporti sagomati che somigliavano ad altaroli cuspidati, a dittici appuntiti su cui si consumavano gli emblemi di un culto misterioso e difficile da decifrare: quella forma, carica di tradizione, serviva come rimando, come segnale che indicasse un punto di concentrazione spirituale, pur slegandosi da possibili referenti confessionali. Come in una scrittura elementare, dunque, singoli oggetti, dalla foglia alla casa, stanno a indicare come vere e proprie icone un concetto più ampio e a riassumerlo per sineddoche: la casa, che è un semplice volume cubico isolato e sormontato da un tetto a spioventi, sta per il concetto di abitazione; la foglia lanceolata per quello di natura. Non importa poi se questa sia ottenuta per via di collage, reincollando carte strappate a mano di cui l’artista mostra e quasi ostenta il profilo irregolare e dentellato ottenuto, evidenziandolo come ulteriore qualificazione della tenuta espressiva; o se invece il profilo della casa, di fronte o di profilo, sia ricavato a risparmio dipingendo su una preparazione marezzata uno sfondo cupo, nerastro o bluastro che avvolge la sinopia dell’immagine entro una notte densa ma piena di leggere e filormi presenze fluttuanti.
Allo stesso tempo Verga non disdegna il segno libero, il tracciato imprevisto che somiglia a un racconto condotto seguendo l’itinerario di una linea in movimento nello spazio. È proprio su questo aspetto che si è speso, spesso, il nome di Osvaldo Licini come nume tutelare, che certo Verga non ha ignorato. Ma la lezione che ha tratto dal maestro di Monte Vidon Corrado, come quella che ne avevano tratto Enrico Della Torre o Mario Raciti, era principalmente uno sdoganamento del fluido movimento della penna o del pennello sul piano del foglio o della tela, lasciando che fosse la rotazione e il moto ondeggiante del polso a definire un andamento del tracciato sullo spazio piano del supporto. Non va mai dimenticato, infatti, che in tutta la pittura di Verga il racconto e lo spazio della rappresentazione coincidono con quello della tela, senza nessun interesse per un approfondimento delle indicazioni spaziali. È proprio così, forse, che la sua pittura ridiventa una scrittura: un racconto garbato, privo di asperità e incapace di cammuffamenti retorici, tutto concentrato su un universo privato e i suoi elementi fondanti. In una notte piena di stelle, il mondo di Verga anima immagini prive di peso, che hanno la consistenza morbida e ovattata delle apparizioni: pensando a Beato Angelico, come l’artista stesso confidava a Stefano Crespi, la sua pittura diventava improvvisamente leggera.
 
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